Da un lato:
Cliff Harris, 38 anni, programmatore indipendente di videogiochi.
Discreti e divertenti. Li vende a meno di 20$. Scopre che i pirati raccano parecchio i suoi giochi, anziché comprarli. Prova l’ “arma del dialogo” con un bell’annuncio online, che fa il giro del mondo:
I want to know why people pirate my games. I honestly do.
This is not some silly attempt to start a flamewar, it’s not at attempt to change anyones mind about anything. I don’t want to argue my side of it, and there is zero ulterior motive. I’m not looking to ‘catch’ anyone, or prove any points.
I know what I don’t know. And what I don’t know is WHY people pirate MY games.
Ottiene un sacco di risposte. Ci lavora su seriamente, mettendosi in gioco in prima persona sulle riflessioni ricevute dai pirati stessi.
Dettagli e fonte: Antonio Tombolino.
Dall’altro lato:
Sei aziende che producono videogames intentano cause legali contro dei privati che hanno scaricato illegalmente videogiochi.
O meglio: intimano di pagare immediatamente 300 sterline, in caso in contrario saranno trascinati in Tribunale.
Dettagli e fonte: La Repubblica.
E’ facile fare il “futurologo esperto di internet”: le aziende non vogliono cambiare il lodo approccio al business, sono retrograde, non sanno trarre vantaggio dalle reti p2p etc etc.
Il fatto è che quel ragionamento funziona senza dubbio più facilmente, se si parla di aziende che producono musica o film.
Un’impresa che per core business sviluppa software dovrebbe (dico: dovrebbe) essere di fatto dotata di più elevate capacità di adattarsi ad un contesto come
Eppure.
Eppure anche loro vanno dall’avvocato, e minacciano. Non si offrono alla “Grande Conversazione”. Provano a schiacciare gli insetti più fastidiosi.
Non so esattamente come pensarla, a questo punto.
Mentre ci filetto su, metto però, faccio un giro sul sito della Positech Games.
Il sito dell’azienda di Cliff Harris.
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